La vita donata e assunta

Giovanni Frangi, River, 2006
Giovanni Frangi, River, 2006

22 giugno 2025

Corpo e Sangue del Signore
Luca 9,11b-17 (Gen 14,18-20; 1Cor 11,23-26)
di Luciano Manicardi

Prefigurata dall’offerta di pane e vino attuata da Melchisedek (prima lettura: Gen 14,18-20) e annunciata dal banchetto di pani e pesci imbandito da Gesù per le folle (vangelo: Lc 9,11b-17), l’eucaristia è per Gesù segno dell’offerta dell’intera sua vita (seconda lettura: 1Cor 11,23-26). Il carattere di prefigurazione eucaristica dell’episodio narrato nella prima lettura è espresso anche dalla memoria, presente nella preghiera eucaristica I (Canone Romano), dell’“offerta pura e santa di Melchisedek, tuo sommo sacerdote” accetta a Dio. Questa domenica offre dunque l’occasione per una meditazione sull’eucaristia.

Il pane e il vino rivestono un’importante e molteplice valenza simbolica. Essi rappresentano la natura (sono frutti della terra) e la cultura (sono prodotti dal lavoro umano); sono cibo e bevanda, gli elementi vitali che accompagnano l’uomo dal suo nascere al suo morire durante tutta la sua vita; pane e vino rinviano alla tavola e dunque alla convivialità e alla comunione che si stabilisce attorno alla tavola; essi rinviano anche alla nostra condizione corporale: il corpo sente e patisce fame e sete, il corpo è sostentato dal cibo, ma il cibo, pur nutrendo il corpo, non può liberarlo dalla morte. Il cibo eucaristico, significato da questi simboli della vita così elementari e pregnanti, anticipa e prefigura quella vita eterna e quella comunione senza più ombre con Dio che, donata in Cristo, sarà realtà per sempre e per tutti nel Regno di Dio. Insomma, mentre fa memoria di tutta la vita di Cristo, l’eucaristia assume anche l’intera vita dell’uomo attraverso i simboli del pane e del vino.

La pagina della Genesi e la ripresa dell’esempio di Mechisedek nel Canone Romano consentono di cogliere la dimensione universale dell’eucaristia: l’incontro di Abramo con Melchisedek è l’incontro della fede nel Dio uno, JHWH, il Dio d’Israele, con la tradizione religiosa cananea di Melchisedek e del popolo gebuseo. In certo modo, Melchisedek può essere colto come rappresentante dell’offerta che dall’intera umanità sale a Dio, dall’umanità che non ha conosciuto la rivelazione. E questo ricorda a noi cristiani che l’eucaristia è azione di grazie che la chiesa (che, secondo una definizione di derivazione origeniana, è kósmos del kósmos) compie a nome di tutta la creazione, per tutto il mondo e su tutto il mondo. L’eucaristia è preghiera delle preghiere: in essa sfociano tutte le nostre preghiere, ma essa è anche espressione di tutto l’anelito umano alla comunione con Dio. Vi è una dimensione cosmica, creazionale e universale nell’eucaristia che non può essere dimenticata. Il mondo e l’intera umanità che Cristo ha riconciliato con Dio sono presenti nell’eucaristia: nel pane e nel vino, nella persona e nel corpo dei fedeli e nelle preghiere che essi offrono per tutti gli uomini.

La seconda lettura riporta le parole di Gesù durante l’ultima cena, parole che accompagnano i gesti che Gesù compie sul pane e sul calice. Egli rende grazie, spezza il pane e dice: “Questo è il mio corpo” (1Cor 11,24). Poi pronuncia queste parole sul calice: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1Cor 11,25). Il pane è un pane parlato, un pane che la parola del Signore rende simbolo del corpo donato di Gesù, della sua stessa vita risolta in donazione. Ugualmente il vino parlato da Gesù diviene segno della sua vita donata e profezia della sua morte cruenta. Le parole ri-significano il pane e il vino che diventano il segno di un amore che motiva il dono che Gesù fa della sua intera esistenza. Ciò che quel pasto significa è dunque l’amore di Gesù, l’amore di Dio che Gesù ha narrato nella sua intera vita e che vuole narrare fino al dono della vita. Non a caso l’eucaristia è stata intesa come sacramentum caritatis, sacramento dell’amore, dell’amore che viene da Dio, che è narrato da Gesù nel suo vivere e che i credenti sono chiamati ad accogliere e a vivere tra loro. Ora, “sacramento dell’amore di Dio”, l’eucaristia è il luogo in cui la chiesa viene edificata come chiesa di Dio: eucharistia in qua fabricatur ecclesia (Tommaso d’Aquino). Avendo al suo cuore il mistero eucaristico, la chiesa appare come l’ecclesia ex charitate formata, la chiesa plasmata dalla carità di Dio prima di essere essa stessa soggetto di carità. L’eucaristia come sacramento dell’amore di Dio e di Cristo ci suggerisce una cosa decisiva sul piano ecclesiologico, e con importanti ricadute sul piano pastorale. Spesso noi pensiamo la carità come ciò che deve essere fatto, e che ci è immediatamente disponibile. Riduciamo la carità a una dimensione pragmatica che, se da un lato convoglia la generosità e la dedizione verso gli altri, dall’altro assicura al credente il suo essere soggetto e artefice dell’amore. Riduciamo la carità a semplice relazione altruistica, a una dimensione orizzontale che può tranquillamente trascurare il suo fondamento teologico: “l’importante è fare il bene”, si dice. Ora, il comando che Gesù, nel brano evangelico, dà ai discepoli “voi stessi date loro da mangiare” (Lc 9,13) non può essere ridotto ad appello alla generosità né compreso come invito a un’efficiente e adeguata organizzazione della carità. Il testo di Luca mostra che quel comando contesta l’indifferenza e il disimpegno verso chi è nel bisogno (“Congeda la folla perché vada nei villaggi per alloggiare e trovar cibo”: Lc 9,12) e suscita l’obiezione dei discepoli che vedono la loro povertà come impedimento ad assolverlo (“Non abbiamo che cinque pani e due pesci”: Lc 9,13). Questo comando urta, ieri come oggi, contro i parametri di buon senso, razionalità, efficienza che pervadono anche la chiesa. Paradossalmente, proprio la povertà che i discepoli vedono come ostacolo, è per Gesù lo spazio necessario del dono e l’elemento indispensabile affinché quel “dar da mangiare” non sia solo dispiegamento di efficienza e protagonismo umano, ma segno della benedizione e della misericordia di Dio e luogo di instaurazione di fraternità e di comunione.

L’eucaristia come sacramentum caritatis ci ricorda che la carità è sì una virtù, ma teologale. Secondo il Nuovo Testamento, “Amore” è il nome stesso di Dio: “Dio è agápe” (1Gv 4,16), e “Amore” è ciò che Gesù ha vissuto e narrato come Figlio amato dal Padre (Mt 3,17 e par.; Gv 5,20) e che ama gli uomini (Gv 13,1; Gal 2,20), “Amore” è ciò che lo Spirito ha effuso nei cuori degli uomini (Rm 5,5). L’agape è al cuore della Tri-unità di Dio. Pertanto, nel cristianesimo la carità assume la precisa configurazione manifestata nell’evento pasquale, di cui è memoriale ogni celebrazione eucaristica. Alla scuola dell’eucaristia noi dovremmo dunque parlare non tanto di rapporto “chiesa – carità”, ma “carità – chiesa”, non tanto di “carità nella chiesa”, ma anzitutto di “chiesa nella carità” in quanto la chiesa è preceduta costitutivamente dall’agape di Dio. Dalla carità di Dio nasce la chiesa. La carità non la si fa, ma la si riceve e questo è ricordato perennemente alla chiesa dalla centralità nella sua vita dell’eucaristia, memoriale della morte e della resurrezione di Cristo. Prima ancora di essere qualcosa che noi facciamo, la carità è una realtà che ci fa, ci plasma, ci converte: essa riguarda il nostro essere, la qualità della nostra umanità. Investe il “chi siamo”, non semplicemente il “che cosa facciamo”. È solo quando è messo in luce il fondamento rivelativo (teologico e cristologico) della carità, che può anche ricevere la sua giusta luce la risposta umana all’amore di Dio. Insomma, unica è la tavola dell’eucaristia e la tavola della carità, come mostra Agostino in un suo discorso in cui il vescovo di Ippona associa il testo di Luca 24, ovvero la tavola eucaristica, dove Gesù compie la fractio panis facendosi riconoscere dai discepoli come risorto, alla condivisione del cibo operata da Elia con la vedova di Sarepta di Sidone (1Re 17,7ss.), che ridà vita alla povera donna e a suo figlio.:

Non diventi orgoglioso chi fa l'elemosina al povero: Cristo s'è fatto povero. Non diventi orgoglioso chi ospita un pellegrino: Cristo fu pellegrino. Era infatti dappiù colui che si lasciava ospitare che non colui che ospitava; più ricco colui che riceveva che non colui che donava. Sì, perché colui che riceveva era padrone di tutte le cose, mentre colui che dava in tanto dava in quanto aveva ricevuto quello che dava da colui al quale lo dava. Nessuno quindi si insuperbisca quando dona qualcosa al povero; nessuno dica in cuor suo: Io do, lui prende; lui è senza tetto e io lo ospito. Può darsi che le cose di cui tu sei privo siano di più. Metti il caso che tu ospiti un uomo giusto. Lui ha bisogno di pane, tu della verità; lui ha bisogno di un tetto, tu del cielo; lui ha bisogno di soldi, tu della giustizia” (Discorso 239).

Noi riceviamo il Cristo non solo nelle specie eucaristiche, ma anche incontrandolo nel povero, quel povero che è la carne di Cristo. Del resto, fin dall’antichità l’eucaristia domenicale è legata a gesti di condivisione nei confronti dei poveri. In 1Cor 16,1-3 Paolo comanda di fare una colletta in favore dei poveri il primo giorno della settimana. Così, al cuore dell’eucaristia si manifesta un vero e proprio magistero per l’agire etico del cristiano: magistero che parla di donazione (il corpo dato), di condivisione (l’unico pane per tutti), e di solidarietà e carità (la colletta per i bisognosi).