Le passioni dell'anima

Giovanni il Solitario, Le passioni dell’anima

Roma, 18 Novembre 2013 (Zenit.org) Robert Cheaib

L’opera della creazione in Genesi 1 si presenta come un ordinamento fatto di distinzioni e di polarità, quasi per invitare l’uomo a imparare a ricreare il proprio universo e la propria vita imitando Dio, mettendo ordine. Quest’arte di riordinare la propria vita e le proprie passioni è stata appresa e insegnata con maestria dai solitari delle varie tradizioni cristiane. Giovanni il Solitario costituisce uno dei grandi maestri della tradizione siriaca in questo campo.

Pur non essendo facile l’identificazione precisa di questo grande maestro, sappiamo della «influenza non trascurabile» che la sua originale dottrina ha esercitato su autori famosi come Filosseno di Mabbug, Giacomo di Sarug, Isacco di Ninive, Giovanni di Dalyata, Giuseppe Hazzaya, ecc.

Il libro Le passioni dell’anima – un classico della cultura monastica siriaca, tradotto per la prima volta in italiano – raccoglie quattro dialoghi di Giovanni il Solitario che testimoniano la facilità e la genialità con le quali ha navigato nell’ambito monastico, spirituale, ascetico e teologico-dogmatico.

Gli argomenti su cui vertono questi dialoghi con Eusebio ed Eutropio sono principalmente – come nota la preziosa introduzione di Marco Pavan – «la scansione della vita spirituale in tre gradi, corrispondenti alle tre dimensioni fondamentali della persona umana: corpo, anima, spirito». È un cammino verso la scoperta, o la riscoperta, di un ordine.

Vi è una capacità percettiva che l’uomo non può esercitare finché è prigioniero dei sensi. «Il corpo non può vedere con gli occhi ciò che non si può vedere se non con la mente». I sensi esteriori, infatti, non possono percepire la profondità dei misteri della creazione e non possono quindi da sé risalire verso «la sapienza nascosta delle creature dell’Onnipotente».

Una metafora efficiente nel pensiero di Giovanni il Solitario mostra la progressione che l’anima vive nell’intelligenza interiore delle realtà spirituali: è la metafora del concepimento del feto nel grembo e della nascita al mondo. Finché rimane al livello fisico o a quello psichico, l’uomo risulta come un feto nel grembo rispetto alla vita futura. Di quel mondo non può sperimentare niente con i propri sensi. Dopo la nascita, però, lo schermo è rimosso e l’uomo può guardare la realtà divina così come è e beneficiare della comunione piena con Dio.

Il più bel canto d'amore

Il più bel canto d'amore - Il Cantico dei cantici tra amor sacro e amor profano

Roma, 19 Dicembre 2013 (Zenit.org) Robert Cheaib

«Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi», così il rabbi Aqiva, uno dei grandi maestri del Talmud, difendeva la sacralità del Cantico di Salomone. È in un certo senso a lui – umanamente parlando – che va il credito per l’inclusione del Cantico dei cantici nel canone giudaico e di riflesso nel canone cristiano delle Scritture.

A Iamnia (Javneh), dinanzi ai rabbini sospettosi della sacralità del Cantico –  dato il suo carattere particolare come «frammenti di un discorso amoroso», per prendere in prestito un titolo di Roland Barthes – rabbi Aqiva sosteneva che «nessuno in Israele ha mai contestato il Cantico».

Rimaniamo comunque davanti a un testo molto particolare in cui non viene pronunciato il nome di Dio se non una volta sola e in forma idiomatica (Ct 8,6). È un testo che ha avuto una ricchissima storia degli effetti e una strabiliante varietà di interpretazioni. Gli ebrei vi videro la celebrazione dell’amore tra Adonai e il popolo d’Israele. I cristiani, a partire da origene, vi leggevano l’amore tra Cristo e la Chiesa. Nella tradizione monastica, il Cantico sarà parte del linguaggio di meditazione e preghiera personale.

Il monopolio quasi totale della lettura allegorica verrà scosso dall’ascesa dell’esegesi storico-critica che porrà di nuovo il dilemma: cantico spirituale? O canto d’amore profano? Non sorprende in questo clima l’affermazione del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer: «Vorrei leggere il Cantico dei cantici come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”».

Nel libro Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Enzo Bianchi raccoglie e presenta un’antologia di letture di «padri della chiesa, teologi, filosofi, scrittori, credenti ebrei e cristiani, non credenti contemporanei, per offrire un saggio delle diverse interpretazioni di questo canto sempre attuale, che diventa linguaggio spirituale o erotico in quanto lo assumono nelle loro storie personali».

Per assaggiare i contributi racchiusi nel volume, lasciamo la parola a Franz Rosenzweig che chiarisce che il senso profano e il senso sacro del Cantico non si escludono a vicenda, ma, anzi, si implicano e si necessitano:

«La metafora dell’amore attraversa, come metafora, l’intera rivelazione. Presso i profeti è la metafora sempre ricorrente. Ma deve essere ben più che una metafora. E tale è solo quando compare senza un “ciò significa”, quindi senza un rinvio a ciò di cui deve essere metafora. Non è sufficiente, dunque, che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio deve esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. E così lo troviamo nel Cantico dei cantici. In questa metafora non è più possibile vedere “soltanto una metafora”. Qui il lettore è posto, a quanto pare, di fronte all’alternativa tra l’accogliere il senso “puramente umano”, puramente sensuale (e certo allora finirà con il chiedersi per quale bizzarro errore queste pagine siano finite in mezzo alla parola di Dio) e il riconoscere che qui, proprio in questo senso puramente sensibile, direttamente e non “solo” metaforicamente si cela il significato più profondo.

[…]

«Non benché, ma proprio perché il Cantico dei cantici era un canto d’amore “autentico”, vale a dire “profano”, proprio per questo era un autentico canto “spirituale” dell’amore di Dio per l’uomo. L’uomo ama poiché Dio ama e così come Dio ama. La sua anima umana è l’anima destata e amata da Dio». 

La misteriosa compassione di Dio

La misteriosa compassione di Dio

Commento sulla Lettera ai Romani di Daniel Attinger

Roma, 08 Marzo 2014 (Zenit.org) Robert Cheaib

Pochi scritti neotestamentari si sono prestati a così tante bandiere come la lettera di san Paolo ai romani. Questa «enciclica» paolina, però, non è una cava da cui estrarre le pietre per comporne mosaici personalizzati a piacimento. La lettera è uno scritto unitario che ha una sua intenzionalità. Come ogni scritto, però, specie se antico, vi è una distanza incolmabile tra autore e lettore. Di questa distanza, Daniel Attinger – autore del volume Lettera ai Romani. La misteriosa compassione di Dio, Edizioni Qiqajon – è ben cosciente.

Il commento che ci presenta questo pastore riformato e monaco di Bose prende atto del fatto che «ogni scritto, dopo che è stato concluso, vive di una sua vita propria determinata anche dall’incontro con il lettore che lo legge con i propri occhi e con il proprio cuore». A partire da questa costatazione, il commento di Attinger si presenta scevro delle intenzioni polemiche e volto a evidenziare il cuore del messaggio paolino ben lontano dalle derive polemiche che pascoleranno nella lettera ai romani nei secoli successivi.

Attinger stesso contestualizza il commento così: «Andando avanti nella redazione di questo commento, mi sono accorto che Romani assomiglia alla Gerusalemme in cui vivo: più la si conosce, più appare impenetrabile, più si percepisce quanti sono i punti dei quali si dovrebbe dire: “Non li capisco”; attira e respinge nel contempo; ti affascina ma, allo stesso tempo, ti fa vedere quanto sei ancora uno straniero, la cui mentalità mai corrisponderà alla sua mentalità».

Ciò non di meno, Attinger individua – come già traspare dal sottotitolo del volume – il cuore pulsante della Lettera: quello della compassione giustificante di Dio che ingloba la lettera dall’apertura (la vocazione di Paolo messo a parte in vista dell’evangelo di Dio, nonché quelli che sono a Roma «amati da Dio e chiamati santi») fino all’epilogo in cui Paolo ribadisce il senso del suo ministero «per le genti, esercitando il sacerdozio dell’evangelo di Dio, affinché le genti siano un’offerta gradita giacché santificata nello Spirito Santo».